Intervista a Serena Noceti

Ho conosciuto Serena Noceti attraverso le parole di don Severino Dianich, che ne esaltò l’intelligenza. L’ho incontrata poi a Torino, durante un convegno della Gioc, riuscendo a coinvolgerla in una delle mie iniziative, anche perché, invitato a tenere la prolusione al convegno "Donne e Teologia: bilancio di un secolo" c’era il suo arcivescovo, il cardinale Silvano Piovanelli.

La sua cooptazione come laica al cuore della progettualità pastorale della diocesi fa parte del progetto pastorale portato avanti da Piovanelli, a cui Serena ha dedicato il trattato di ecclesiologia, che ha redatto assieme a Severino Dianich. Inoltre lei intreccia lo studio, l’insegnamento e la ricerca, con un impegno pastorale professionale, secondo un modello raro in Italia, e che comunque si iscrive in una dimensione di ministerialità laicale.

Non è stato facile intervistarla, poiché manifesta difficoltà e imbarazzo a parlare di sé e della sua "storia all’inizio", definendosi "apprendista teologa".

  • Come è nato l’interesse per la teologia?

«Dall’esperienza della mia parrocchia e dai corsi di lettura ed esegesi biblica proposti a scuola dal mio insegnante di religione, attraverso una prassi pastorale pensata, mai appiattita sul già dato, segnata da una forte ministerialità laicale, con la consapevolezza della centralità fondativa della parola di Dio per la vita della comunità ecclesiale e della necessità di un approccio esegeticamente corretto. Così è nato il desiderio di acquisire strumenti che mi aiutassero a pensare l’esperienza di fede personale e comunitaria, con la volontà di apprendere quei contenuti della fede cristiana, che abitualmente sono conosciuti soltanto dai presbiteri, per poterli condividere con tutti».

  • Qual è stato l’atteggiamento della tua comunità parrocchiale?

«Fin dall’inizio mi ha sostenuta e incoraggiata; ha valorizzato quanto apprendevo, chiedendomi molto presto di condividere con gli altri quanto studiato: gruppi giovanili e biblici, sussidi formativi per operatori hanno costellato le mie giornate. Gli amici hanno sempre partecipato ai miei studi, sono stati una continua conferma della strada intrapresa. Mi hanno aiutato a capire che si può essere teologi solo nel popolo di Dio. Ho sempre saputo per chi stavo studiando, scrivendo, approfondendo. A partire dal terzo anno di teologia, si è aggiunta l’esperienza del sinodo diocesano; ho fatto parte della commissione centrale, partecipando alla stesura dei documenti; è stata un’esperienza unica di Chiesa locale, colta nel momento del suo "dirsi", autodefinirsi, nella sua possibile e necessaria trasformazione. Per la stessa ragione è stata importante la collaborazione con il Movimento per un mondo migliore, per studiare progetti di rinnovamento della pastorale parrocchiale e diocesana».

  • È difficile unire l’impegno pastorale, lo studio e la ricerca. Avevi tutto chiaro sin da principio?

«Quando ho iniziato gli studi pensavo a un inserimento professionale in pastorale dopo il baccalaureato, una specie diPastoralreferentin, anche se allora non ne conoscevo l’esistenza. La scelta di continuare a studiare teologia, la licenza e l’iscrizione al dottorato sono emerse dopo. La mia esperienza di vita, studio e ricerca teologica si gioca tuttora intorno al binomio: Chiesa-parola di Dio. Un po’ tutta l’esistenza viene plasmata da ciò che si studia; le preferenze in campo teoretico sono correlate al vivere come credente. Queste due radici spiegano anche la passione per l’ecclesiologia: determinanti sono stati i corsi del professor Severino Dianich, di cui poi sono dive-nuta assistente. Il rigore concettuale, il forte senso logico, la libertà e l’onestà nella ricerca, l’ampiezza dello sguardo, l’equilibrio umano, l’interesse per le questioni epistemologiche mi hanno molto colpito. Mi ha offerto gli strumenti per pensare la Chiesa, interpretarla, nel suo darsi e nel suo divenire, per sognarla diversa. Lui mi ha orientato negli anni in cui ho intrapreso un percorso di ricerca più propriamente speculativo: dalla tesina per il baccalaureato alla stesura, con lui, del Trattato sulla Chiesa. Questi anni sono stati un prezioso, stimolante, tirocinio guidato; gli sono grata anche per il suo intelligente iniziarmi alla ricerca e alla docenza».

  • Essere donna ti ha penalizzato?

«No, anche se è un ambiente quasi interamente maschile, non ero la prima né l’unica studentessa; ho instaurato buoni rapporti con i miei compagni, anche se al liceo e in parrocchia non avvertivo una differenza maschio/femmina, e non è stato subito facile. La curiosità che percepivo – manifestata con le domande o con le battute – mi rinviava alla "stranezza" della mia presenza. Appartengo alla seconda generazione di donne che studiano e insegnano teologia. Ho goduto quindi di strade già aperte – a caro prezzo – da chi mi ha preceduto».

  • Quanto ha inciso su di te la teologia già elaborata da donne?

«Mi sono avvicinata ai testi biblici e alla teologia avvalendomi dei contributi elaborati anche da donne, anche se devo rilevare che raramente vi si fa riferimento nei corsi istituzionali. È stato importante soprattutto per cogliere le precomprensioni, linguistiche e concettuali, i modelli di stampo androcentrico e patriarcale che andavo via via studiando nel normale iter teologico. Ho frequentato un solo corso tenuto da una docente, M. Cristina Bartolomei, sulla filosofia e teologia della differenza sessuale. Ma non ho mai voluto occuparmi di questioni specificamente legate alla condizione femminile o all’identità della donna. Penso sia tempo di fare teologia e basta, studiare teologia tout court, non perché i problemi siano stati risolti, ma perché il campo della ricerca dev’essere ampio e il confronto non pre-determinato dalla scelta di temi, com’è stato necessario in una prima fase. Talvolta capita anche a me di essere chiamata a tenere riflessioni sulla donna nella Chiesa e nella Bibbia. Non mi sottraggo; aiutare ad avvicinarsi alle molteplici donne che la Scrittura ci pone davanti è favorire una scoperta liberante per molti».

  • Quali i nodi più rilevanti nella scelta professionale della teologia?

«I problemi maggiori non sono legati all’essere donna, quanto al dedicarsi allo studio e all’insegnamento della teologia come laici. Anche se permangono alcune resistenze di politica ecclesiale, sotto l’aspetto economico, sono pochissimi i laici che possono dedicarsi a tempo pieno allo studio della teologia. Però la presenza di laici, donne in particolare, nella teologia accademica, nel pensare e dire la fede in modo scientifico, rappresenta una svolta sostanziale nell’esperienza di Chiesa e nella teologia».

  • Ci parli della tua attività nella Chiesa fiorentina?

«Da sei anni lavoro per la diocesi di Firenze come responsabile del settore catechesi degli adulti. Determinante è stata la scelta del cardinale Silvano Piovanelli, che ha assunto anche altri due laici, licenziati in teologia, che si occupano di pastorale giovanile e di liturgia; entrambi insegnano presso l’Istituto superiore di scienze religiose e la Facoltà teologica. La mia collega, Nadia Toschi, ha tenuto anche un corso sulla teologia femminista».

  • E il tuo lavoro di docente?

«Mi permette di valorizzare gli studi teologici e arricchisce la mia ricerca con il continuo confronto con quanto nasce ed evolve in campo catechetico e pastorale. La mia attività principale è quella di elaborare gli strumenti necessari per il percorso formativo, fondamentalmente biblico, di 1.100 piccoli gruppi che s’incontrano ogni settimana per leggere un libro biblico proposto a inizio anno; devo formare gli animatori e coordinare il cammino. L’attenzione va nell’insegnare un metodo di lettura che garantisca autonomia e libertà al cristiano, e aiuti a superare quell’eterna condizione di minorità che è legata al dover dipendere da chi sa e può. Come ufficio stiamo cercando strade nuove per una trasformazione dei modelli catechistici, perché siano più radicalmente spostati sul versante dell’evangelizzazione, perché siano di adulti, condotti in modo adulto, espressione (come tematiche e linguaggi) di un vivere la fede nel quotidiano feriale. Catecumenato, percorsi per ricomincianti, itinerari formativi per famiglie dopo il battesimo dei figli sono i settori che ci coinvolgono di più e che ci sembrano maggiormente fecondi».

  • Tutto ciò orienta a un nuovo modello di Chiesa?

«Il diffondersi di una visione di Chiesa tutta ministeriale e il riconoscimento del ruolo dei laici sta cambiando significativamente il volto delle comunità cristiane; la figura collettiva di Chiesa è mutata grazie alla presenza visibile e attiva delle donne nella pastorale a vari livelli, soprattutto nella trasmissione della fede (penso al numero rilevantissimo delle catechiste). La mia attività professionale mi porta a confrontarmi con la partecipazione responsabile e autorevole delle donne, che è cresciuta, alla vita della Chiesa, anche se ancora poche possono partecipare ai processi strategici e decisionali e troppo debole è la coscienza riflessa di cosa comporti la nostra identità e presenza per la formazione della comunità cristiana».

  • Puoi essere più esplicita sul tuo percorso di studio e di ricerca?

«Sto studiando a Firenze, presso la Facoltà teologica. Soprattutto gli anni della licenza sono stati ricchi di stimoli, specialmente per l’apprendimento di una metodologia teologica adeguata. La presenza di numerosi docenti provenienti da università statali e da altre Facoltà teologiche ha permesso di allargare lo sguardo e il confronto anche al di là del contesto più immediato della Facoltà. Ho conseguito la licenza in teologia dogmatica, con specializzazione in antropologia teologica, nel 1994. Mi sono iscritta poi al dottorato (prima a Napoli, poi a Firenze), ma non ho ancora concluso la mia dissertazione, dedicata all’ecclesiologia di W. Pannenberg».

  • Ciò malgrado insegni già...

«Dal 1995 insegno antropologia teologica all’Istituto superiore di scienze religiose; dal 1996 sono assistente di ecclesiologia e cristologia. Quest’anno insegno ecclesiologia anche presso lo Studio teologico interdiocesano di Camaiore, affiliato alla Facoltà. Tra le esperienze utili per formarmi a una mens teologica annovero la partecipazione a corsi e convegni dell’Associazione teologica italiana. Molto importanti le letture: Bonhoeffer, saggi sulle teologie della liberazione, Moltmann, Metz, Pannenberg. Tra i teologi italiani, oltre Dianich, Forte, Rizzi, Colzani, Italo Mancini. Mi sono avvicinata agli scritti di Mounier, Buber, Weil. Leggo studi e commentari biblici, saggi di sociologia. Sento però importanti per la mia formazione anche la lettura di romanzi, la poesia, il cinema, il teatro».

  • Quali sono i temi teologici verso cui ti indirizzi?

«La teologia del ministero ordinato e le questioni emergenti nel dialogo ecumenico, soprattutto con le Chiese della Riforma. Lo sforzo è quello di interrogarmi e di determinare la natura della Chiesa nei suoi elementi essenziali, cogliendola nel suo divenire, nell’interazione dei soggetti che la costituiscono, come Traditio. Fin dal liceo è stato illuminante, per pensare la teologia e il suo compito, riferirmi all’undicesima tesi di Marx contro Feuerbach "i filosofi non hanno fatto altro che interpretare in vari modi il mondo, ma ora si tratta di trasformarlo". L’ecclesiologia è una disciplina teologica che mi sembra unire interessi propriamente speculativi al compito responsabile del trasformare».

  • Torniamo alle donne. Che contributo aspettarsi da loro?

«La presenza delle donne, come discenti e docenti nelle istituzioni accademiche, lo sviluppo di molteplici forme del loro teologizzare in diversi contesti ecclesiali e culturali (sinodi, associazioni laicali, saggistica, stampa), la loro produzione scientifica nel campo del sapere e dire la fede apporteranno con il tempo una trasfigurazione di Chiesa: sono apparsi sulla scena teologica nuovi soggetti, finora silenziosi e irrilevanti per il dire speculativo della fede, e altrettanti offrono novità nelle categorie, punti di partenza, processi mentali, e desideri di trasformazione. In questo campo sono stati compiuti i primi passi, ma per il momento la teologia elaborata da donne (e in particolare quella femminista) è stata solo parzialmente accolta nei testi teologici e magisteriali; la revisione del linguaggio e delle categorie ermeneutiche è avvenuta in minima parte. In Italia le teologhe sono una minoranza numerica che, per quanto qualificata, non può incidere sulla ricerca teologica. Il fatto che siano pochissime coloro che a tempo pieno si dedichino alla teologia impedisce la pubblicazione di opere di ampio respiro».

  • Verso quali temi dovrebbe orientarsi la ricerca femminile?

«Tra le discipline teologiche potrebbe essere utile indirizzarsi alla cristologia – penso al tema della maschilità di Gesù – alla sacramentaria, alla soteriologia, alla morale sessuale e familiare. Al di là di singole tematiche mi sembra però importante il modo di fare teologia, soprattutto il confronto con i teologi. Proporrei di superare impostazioni separatiste (le teologhe si occupano di questioni femminili) e oppositive; è tempo soprattutto di elaborazioni comuni, in una reale partnership teologica. Per altro veniamo da una tradizione che vede solo la produzione individuale, sono rari i casi di scrittura ed elaborazione collettiva, i circoli teologici non fanno parte della nostra tradizione di monadi pensanti; un modus cooperandi di questo tipo sarebbe profetico per il teologizzare tout court».

  • Cosa pensi dell’attuale congiuntura ecclesiale?

«Rispondere è difficile se si analizza il divenire di una Chiesa diventata mondiale, realmente universale, in un tempo di passaggio legato alla fase finale di un lungo pontificato. A una forte trasformazione culturale che attraversa rapidamente le coscienze, le identità, la forma del vivere occidentale, ma non solo, non sempre è corrisposta un’adeguata riflessione sull’identità e forma ecclesiale. Alcuni disagi, anche evidenti e manifesti, non hanno trovato sufficiente ascolto e così alcuni bisogni e richieste presenti nel popolo di Dio sono rimasti inevasi. Un problema che impedisce di affrontare gli altri è la grave carenza nelle dinamiche comunicative: non c’è comunione senza comunicazione, che nella Chiesa è debole, unilaterale (rimane dal centro alla periferia, dall’alto in basso); in un mondo che scopre la possibilità di comunicare "a rete", noi insistiamo su una comunicazione a grappolo, da uno (in ogni caso da pochi) che sa ai molti ascoltatori. Si ascolta poco perché si crede poco all’apporto del sensus fidelium, alla soggettualità di tutti, alla laicità della Chiesa e non si approntano strumenti, strategie, strutture adeguate a questo compito. La sfida rimane quella del "dare parola a tutti" come diceva don Milani, fermo restando il compito proprio dei vescovi».

  • Lo si coglie nel passaggio da un’ecclesiologia universalistica a una locale?

«Purtroppo, la rivoluzione copernicana di un’ecclesiologia locale e non più universale, che il Vaticano II ha iniziato, non ha ancora dato i suoi frutti. Il nodo del rapporto Chiese locali-universa/universalis ecclesia è aperto. Prendere sul serio la localizzazione delle Chiese, il loro essere soggetto culturale ci fa paura. Una grande ricchezza verrà dal confronto delle Chiese locali occidentali con quelle che vivono in altri contesti culturali, per il diverso modo di affrontare l’identità del singolo, per le differenti forme aggregative sociali, per il diverso senso della storia e della storicità».

  • Cosa rimproveri alla teologia?

«I due limiti maggiori sono il ripiegamento della teologia su sé stessa, autarchica per certi aspetti, e il suo poco coraggio. Auspico, e sogno, una teologia e una Chiesa coraggiose, capaci di avvicinarsi con parresia e senso di responsabilità alle questioni spinose, che solo marginalmente vengono toccate e spesso per riaffermare il già detto. Per l’ecclesiologia, orizzonti aperti sono tutti quelli sollecitati dal dialogo ecumenico: apostolicità della Chiesa, ministero, figura di Chiesa. Mi sembra interessante riflettere sui temi dell’autorità, del consenso, del sensus fidelium, sulle dinamiche comunicative. Per l’ecclesiologia, penso sarà fecondo il confronto con la sociologia, soprattutto tedesca e americana, che offre nuove suggestioni e strumentazioni per pensare queste tematiche».

  • E, fuori dai temi ecclesiologici?

«Il confronto con altri saperi, altre scienze, con le domande degli uomini di oggi e con le loro risposte (per esempio, i movimenti new global), non è altro dal fare teologia; ci arricchisce non solo quanto a contenuti ma anche a metodi e categorie. L’umiltà dell’imparare dall’altro e la fatica del cercare insieme, senza pretendere di possedere mappe dell’universo già complete. Il confronto può e deve essere sostenuto proprio in un’ottica di fede, come Chiesa che è parte del mondo, consapevole di tendere incessantemente alla pienezza della verità divina, mai possesso già dato e pacifico. Risuona sempre in me quanto espresso in Gaudium et spes 44: dobbiamo conoscere i linguaggi del nostro tempo non solo per poter annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, ma anche per poterlo meglio comprendere. Una teologia ben fatta, per far eco alla "testa ben fatta" di Edgar Morin, mi sembra sia proprio, e solo, quella che ha questo coraggio, questa povera provvisorietà, e insieme questo ampio, cattolico respiro».

Cettina Militello